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Perdersi

Perdere le chiavi di casa è per me ormai un rituale. Ogni mattina, puntualmente, non si trovano mai dove sono convinta di averle lasciate. Metto sottosopra la camera e il salotto, frugo borse e giubbini, con l'ansia di non riuscire a partire di casa, con la paura di averle perse per sempre. Alla fine, però, le ritrovo, tiro un sospiro di sollievo e filo in macchina.

Con le persone non è così. Quelle se le perdi, sono perse. Punto. Non le ritrovi.
E io, te, ti ho perso.

Wow, fa strano scriverlo. È la prima volta che lo scrivo. Forse per quella mia fissazione che scriverlo lo renda definitivo, che non metterlo nero su bianco potesse darci una seconda opportunità. Verba volant, scripta manent ...ecco, è per questo. Eppure oggi so che devo farlo. L'ho pensato a lungo e qualche volta l'ho anche detto a qualcuno. Ho passato il tempo a sfuggire la domanda, ad arrabbiarmi con chiunque mi chiedesse di te, a rimproverarmi di starci troppo male per qualcuno che non vuole esserci più. Ma non l'ho mai scritto così, secco, diretto, preciso, senza scappatoie.
Qualche giorno fa ho beccato per caso un articolo (link qui) e sentito che parlava con noi. O per meglio dire, con me. Non posso più dire "noi", non so come è adesso la tua vita, non so cosa senti, non so cosa provi né cosa senti, non so se ci pensi ancora, se ci ricordi. Non so nulla quindi non posso parlare per te. Parlava con me. Mi diceva che tutti quei "la vita ci ha cambiate" e "abbiamo preso strade diverse" e "siamo cresciute" erano solo stronzate. Ci sono sempre dei motivi quando si tratta di storie come la nostra. Ci sono piccole ferite e tanti silenzi, che come mattoni e cemento si uniscono insieme a erigere un muro che si fa sempre più alto fino al punto in cui ti separa per sempre.

Non so a cosa tu dia la colpa. Probabilmente i miei gesti non sono stati quelli che tu avresti voluto. Sicuramente ho sbagliato nei tuoi confronti, in maniera cosciente o meno. Non ti capivo, magari. Non ti sostenevo. Non ti aiutavo e non ti consolavo. Perché nel momento in cui hai iniziato a giocare col fuoco ti avvisavo di non buttartici dentro. Perché quando ne poi piangevi le scottature, non ero lì a metterti un cerottino di Hello Kitty ma ti dicevo di imparare e aprire gli occhi evitando che la bruciatura fosse peggiore la volta successiva. Perché ti ho detto di smetterla di dare la colpa al fato avverso e iniziare a costruire il tuo fato determinata a non accontentarti di quello che passa il convento ma pretendendo amore e rispetto. Perché? Perché ero cresciuta, sotto questo aspetto sul serio. Perché mi sono buttata dentro il fuoco e ho avuto un ustione di quinto grado. Perché il mio cuore era a pezzi, la mia vita in frantumi, il mio futuro in rovina. Perché ho raccolto i cocci e ricostruito il recuperabile. Perché ho accettato le mie responsabilità, che quel cazzo di dolore lancinante me lo ero procurata da sola. Non era stato "il mondo", non era stato "il destino", ero stata io. Era stato tutto a causa di un mio errore. Non del fato.
Potrei aggiungere che tu eri lì con me a reggermi le bende per fasciare le ferite. Ma mentirei. Perché non è così. Perché tu non c'eri. Perché in sei mesi d'inferno che ho passato tu avevi altro a cui pensare. Te lo dissi, ricordi? Te lo dissi davanti a una pizza in una delle rare serate che ormai passavamo insieme. Ricordi la tua risposta?

Il mio motivo è questo. Per quanto continuassi a negarlo, ero già un contorno. Ed è stato pian piano sempre più evidente. Fin dagli inizi, all'arrivo di un nuovo rapporto finivo nello sgabuzzino, come un bambino che dimentica la sua palla appena riceve un nuovo regalo. Te l'ho sempre perdonato, ogni volta. Nonostante le mie visite allo sgabuzzino diventassero sempre più tragiche, al punto che i segreti più intimi che ti ho confidato sono finiti nelle orecchie di qualche tuo nuovo giocattolo. Perché? Ora me lo chiedo. Perché?

Per questo.
Di amori che finiscono è piena la letteratura, la musica pop, la poesia... Di amicizie che finiscono, invece, non si parla mai: quasi come se fosse un tabù. [...] Sono schegge di dolore, come quella di Emily Chenoweth: "Per lungo tempo quel che provavo per lei era come una scheggia di vetro nel cuore: mi faceva male ogni volta che mi muovevo". [...] Jenny conferma: "Quando un amore finisce, rientra, in qualche modo, nell'ordine naturale delle cose. La passione si spegne, il quotidiano logora... Invece pensiamo sempre che un'amicizia sia fatta di un materiale molto più resistente. Quando si spezza, la sensazione più forte è lo stupore, e l'incredulità".
Per questo, sì. Perché siamo abituati a un amore che finisce. Ne vediamo, viviamo e finiamo migliaia. Ma l'amicizia, no. Quella deve essere eterna. Siamo abituati così. Nei miei progetti tu eri accanto a me sempre, a fare da testimone al mio matrimonio, a cullare mia figlia la prima notte in ospedale, a farti chiamare zia mentre le insegni a camminare. Eri con me, vecchia e rugosa, a ricordare quel giorno in cui ci siamo scelte in classe al primo superiore ed è iniziato tutto.
E forse lo sognavi anche tu.

Ma adesso il punto di non ritorno è stato ampiamente superato.
Non siamo solo lontane. Siamo estranee.
Un vecchio amore può ricominciare: si può andare a letto insieme, anche solo per nostalgia, perché quel corpo ti chiama. Un'amica perduta è perduta per sempre.
Quello che fa più male è avere la certezza che nessuno potrà prendere il tuo posto.
Forse perché nel profondo del mio cuore so che quel posto sarà in realtà sempre occupato dal nostro ricordo. Di quando ancora c'era quel noi.

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